...sono le passioni che ti salvano quando tutto intorno sembra crollare, solo attraverso loro sei vivo...
giovedì 5 settembre 2013
Resti di me. Angela Barile.
Eccomi qua, mentre provo a mettere insieme due parole sul mio tempo, sulla personalissima successione che dò agli eventi, sul modo in cui li seleziono e scelgo quali portare via con me e quali, invece, lasciare lungo la strada. Questi mesi sono stati veloci e carichi, non sempre il tempo è così, a volte pesa, sembra quasi che non passi, altre è leggero, hai come la sensazione di non essere riuscita a catturare tutto, di esserti persa qualcosa.
Eppure quello che è importante resta.
Resta questa città che rincorro da sempre e che, ora è mia, mia perchè la posso guardare tutte le mattine al risveglio, mia, anche quando, mentre porto curricula in giro, mi fa l'occhiolino con un tramonto, lei è lì vera, e, il tempo non la cancella, non è una di quelle cose che può passare.
Resta tutta la fatica, tutti i mesi passati a chiedermi perchè...e restano le risposte che mi sono data che non valgono per tutti, ma che valgono per me.
Resta quello che ho visto dalla cima di una montagna a 1800 metri di altezza: la distesa sconfinata di questo mondo visto dall'alto e il cielo che quasi sembrava di starci dentro, ma forse ancora di più resta la salita, un passo dopo l'altro, con la paura, che ogni tanto faceva capolino, di non riuscire a farcela.
Resta qualcuno, resta anche se non c'è più, sei tu che decidi se farlo restare.
Succede, a volte, che chi scompare resta di più.
Non resta, invece, la me di prima. A volte mi sembra vederla riaffiorare, ma è solo una specie di sogno, quando allungo le mani per sfiorarla lei scompare.
sabato 31 agosto 2013
I quaderni di Malte Laurids Brigge. Rainer Maria Rilke.
Ero molto in dubbio se scrivere una recensione su questo libro, mi sembrava un compito piuttosto arduo per molte ragioni. Difficile è, per esempio, identificarlo con un genere letterario preciso: molti critici parlano di romanzo, l'unico di quest'autore, Rainer Maria Rilke, che è, invece, un poeta; eppure questa definizione è, secondo me, non corretta. Il Malte è un testo molto complesso, con una trama non bene identificata: sappiamo solo che il protagonista, Malte Laurids Brigge, danese, appartenente ad una nobile famiglia decaduta, arriva a Parigi e si stabilisce nel quartiere latino. Da questo punto in poi tutto è affidato a impressioni, ricordi, soprattutto del periodo dell'infanzia, legati, questi, in particolare, all'immagine materna, che, viene fuori in tutta la sua dolcezza e profondità.
La solitudine dell'essere umano, l'incapacità di poter essere se stesso al di fuori dei condizionamenti della società, sono elementi importantissimi in quest'opera, e, rendono questo testo particolarmente significativo. Infatti, Il Malte è stato pubblicato nel 1910 e, porta con sè la crisi del romanzo ottocentesco, lo sgretolamento dell'individuo; l'assenza quasi totale della trama, è, secondo me, la prova di questa indefinitezza, la ricerca continua dell'essere prende il sopravvento su una realtà, che, a parte rari momenti di comunione totale, sembra completamente estranea, all'artista.
E' chiaro che Malte è un alter ego di Rilke, è della sua estraneità che il poeta parla, è la sua inquietudine che mette in scena, ma, alla fine, è la condizione dell'uomo, in senso oggettivo, che trapela da queste pagine.
Leggendo questo testo mi è tornato alla mente Il libro dell'inquietudine di Pessoa, anche se, il sogno nell'autore portoghese rappresenta ormai l'unica realtà possibile, mentre in Rilke gli eventi, i ricordi restano ancora per essere poi trasfigurati e rappresentati in una realtà che sia al di sopra degli eventi.
Con la parabola del figliol prodigo, nella parte finale del libro, Rilke rappresenta se stesso: prima l'allontanamento dal mondo, poi, un ritorno al passato, e, infine, un avvicinamento all'amore perfetto, cioè, Dio. E' questa realtà che vive al di sopra delle cose che l'autore cerca, qualcosa che sia libero dalle contingenze della realtà fisica, che ci permetta di accettare con serenità quella che è l'unica vera condizione dell'uomo: la solitudine.
E' chiaro che Malte è un alter ego di Rilke, è della sua estraneità che il poeta parla, è la sua inquietudine che mette in scena, ma, alla fine, è la condizione dell'uomo, in senso oggettivo, che trapela da queste pagine.
Leggendo questo testo mi è tornato alla mente Il libro dell'inquietudine di Pessoa, anche se, il sogno nell'autore portoghese rappresenta ormai l'unica realtà possibile, mentre in Rilke gli eventi, i ricordi restano ancora per essere poi trasfigurati e rappresentati in una realtà che sia al di sopra degli eventi.
Con la parabola del figliol prodigo, nella parte finale del libro, Rilke rappresenta se stesso: prima l'allontanamento dal mondo, poi, un ritorno al passato, e, infine, un avvicinamento all'amore perfetto, cioè, Dio. E' questa realtà che vive al di sopra delle cose che l'autore cerca, qualcosa che sia libero dalle contingenze della realtà fisica, che ci permetta di accettare con serenità quella che è l'unica vera condizione dell'uomo: la solitudine.
giovedì 18 luglio 2013
Una donna.Sibilla Aleramo.
E' difficile per me scrivere una recensione di questo romanzo, e, non solo perchè è un classico della letteratura su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, ma anche perchè nelle sue pagine mi sono spesso ritrovata per similitudine o per contrasto. Questo potrebbe sembrare quasi paradossale vista l'epoca in cui è stato scritto ( la data di pubblicazione risale al 1906 ) e visto l'argomento trattato, che, in apparenza, è assolutamente estraneo alla società e al luogo nel quale vivo. Eppure, secondo me, questo libro, che poi è una vera e propria autobiografia dell'autrice, non è semplicemente uno dei primi testi femministi usciti in Italia, ma il racconto di come una vita debba essere , innanzitutto, la risposta ad una necessità primordiale che, è, poi, quella di incarnare la nostra essenza più profonda a costo di qualsiasi sacrificio.
Sibilla Aleramo, racconta la sua vita: da lontano rivede gli anni felici della sua infanzia milanese, il rapporto forte e profondo che ha con suo padre, quello più distaccato con la madre, donna malinconica e amante di poesia, e, ancora, quello con i suoi fratelli e sorelle più piccoli.
Quando Sibilla ha dodici anni, tutta la famiglia si trasferisce a Civitanova marche, dove il padre dovrà dirigere una fabbrica di bottiglie. Il passaggio da una realtà come Milano a quella di un piccolo paesino del centro Italia è, per la famiglia, abbastanza traumatico, ma Sibilla si adatterà velocemente iniziando a lavorare accanto al suo amato padre. Ad un certo punto, gli eventi precipitano, pian piano il rapporto tra i suoi genitori si deteriora e sua madre si chiude sempre di più in una cupa tristezza che la porterà poi ad un tentativo di suicidio che non avrà buon fine.Quest'evento avrà un forte ascendente su lei, ragazzina : innanzitutto ne risentirà il sentimento di assoluta venerazione nei confronti della figura paterna, che non rivedrà mai più allo stesso modo, e, più avanti, sarà il motore dal quale partiranno le sue scelte future, l'immagine di sua madre, trasportata a letto in un lenzuolo bianco si imprimerà nella sua mente per ritornare con violenza inaudita nelle ultime pagine del romanzo.
Sibilla subirà uno stupro da parte di un dipendente di suo padre, che, alla fine sposerà. Il matrimonio sembra quasi un modo per dare legittimità ad un atto così atroce, lei non confessa a nessuno la violenza, ma , così, crede, di farsi giustizia da sola, attraverso le nozze.
E' immediatamente chiaro che marito e moglie non sono assolutamente fatti per stare insieme: lui, rozzo e violento non può capire un animo sensibile e colto come quello della sua compagna. L'unica gioia di questa unione è il figlio, Walter, che sarà il solo faro di questi anni bui. Per tantissimo tempo Sibilla crederà di poter resistere, di poter annullarsi nel suo ruolo di madre, in questo amore sconfinato e inesprimibile che sente per la sua creatura. Ma è a quel punto che l'immagine triste e sconsolata della donna che l'ha messa al mondo farà capolino nella sua memoria, comincerà ad immaginare come sarebbe stato se sua madre, scegliendo la vita, avesse abbandonato lei e i suoi fratelli, e, la risposta che lei, con il suo bagaglio di esperienze, si darà, non potrà che essere quella definitiva e l'unica possibile.
Sono cariche di sofferenza le pagine in cui lei combatte, divisa, tra il suo ruolo di moglie e di madre e il suo ruolo di donna. Siamo nei primi anni del 900 e le due necessità, all'epoca, non erano assolutamente compatibili: Sibilla si trova davanti ad un bivio e, noi, la vediamo propendere ora per una strada ora per un' altra, fino a che la scelta diventerà quasi obbligata.
E' a suo figlio che Sibilla scrive. Questo suo primo romanzo è una sorta di confessione fatta a lui, affinchè un giorno possa leggerla, e, a tutti i figli del futuro, ad un mondo nuovo in cui la donna avrà giuridicamente gli stessi diritti di un uomo.
Il dolore e la forza che convivono nella protagonista sono una delle immagini più belle che io abbia mai colto in un libro, la necessità primordiale che lei sempre ha sentito e contro la quale ha sempre combattuto, si annida fin dalle prime pagine per restituirci , alla fine, una donna sofferente ma vera, una donna che prende coscienza della sua essenza più profonda e la insegue a costo di terribili rinunce.
Il libro, in passato, non ha avuto la considerazione che avrebbe meritato e la scrittrice se ne doleva: in una lettera, scritta nel 1956 ad Arnoldo Mondadori, Sibilla scrive:"Io ho dinanzi a me il futuro, anche se voi non lo credete."
Mai nessuna frase fu più profetica.
Una donna resta ancora oggi a rappresentare tutte le donne del mondo, del passato e del futuro, quelle che, a costo di grandi sacrifici, ce l'hanno fatta, quelle che hanno rinunciato e quelle che sono cadute lungo la strada.
giovedì 4 luglio 2013
Una buona ragione per uccidersi. Philippe Besson.
Ho intravisto questo libro quasi nascosto sullo scaffale di una grande libreria, il titolo mi ha catturata per la sua immediatezza quasi cruda e indecente, l'ho preso senza pensarci troppo, era uno di quei libri che sembrano aspettarti, l'unica copia a fare capolino tra altre centinaia.
"Una buona ragione per uccidersi" è un romanzo sulla nostra società, sulla difficoltà che hanno gli individui di riconoscersi gli uni negli altri, di come il dolore di qualcuno passi quasi sempre completamente inosservato, coperto dal frastuono e dall'indifferenza che ci circonda.
Laura e Samuel sono i due protagonisti di questa storia che si svolge in un unico giorno a Los Angeles, il 4 novembre 2008, mentre tutta l'America si appresta ad eleggere il suo primo presidente di colore, eppure nessuno dei due sembra scalfito da questo evento che resta nella storia solo un mero sottofondo: per Laura questo è il giorno in cui si suiciderà, per Samuel il giorno in cui deve seppellire suo figlio. I due non si conoscono, fino a quando le loro vite si incontreranno.
Sono i dettagli ad essere raccontati in questo romanzo, il fatto che tutto avvenga in un solo giorno riesce a conferire ad ogni gesto un'importanza e una fatica che in un tempo più lungo non sarebbero venuti fuori così bene: l'importanza e la fatica di vivere.
Non puoi smetterlo di leggere questo libro, lo divori e ti divora: l'inconsolabile rassegnazione senza speranza di Laura, il dolore innaturale di Samuel diventano tuoi in queste pagine e ti sembra quasi di provarli sulla tua pelle o, comunque, in qualche modo, di condividerli, e, ad un certo punto, ti ritrovi a pensare che forse è vero, Laura non ha scelta e che il futuro che spetta a Samuel non ha quasi importanza, riecheggiano nella mia testa le sue parole oggi non ci sono più figli. E' il padre orfano. Il padre senza discendenza.
Eppure nei due protagonisti, così vicini alla morte in questo giorno, cogli il vero senso della vita: in ogni loro gesto, in ogni loro pensiero c'è l'essenziale; mentre il resto del mondo spera, festeggia, si entusiasma, la vita è tutta lì su quella panchina ai piedi dell'oceano, in quell'incontro che sarebbe potuto avvenire o che forse avviene.
lunedì 17 giugno 2013
Un fiume di parole.
Il foglio bianco mi osserva sconsolato,
le parole non scivolano dalle dita, si vergognano a prender forma,
sono trattenute da cancelli che neanche io conosco e, per quanto mi
sforzi, l'unica cosa che riesco a vedere è questa pagina candida, la
storia che deve sporcarla non viene fuori, che poi a pensarci bene è
un po' la storia della mia vita, quella di non sporcare, intendo, di
non disturbare. E chissà, forse, è questo che voglio evitare,
imporre la mia presenza, le mie frasi, l'inchiostro nero che sbava
sulla pagina bianca.
Mi scopro a fatica, sempre molto
controllata, difficilmente mi lascio andare, nascondendomi dietro un
modo di fare affettato e schivo, eppure questo spazio bianco continua
a chiamarmi, mi sfida, e , a me manca la grinta, manca l'ambizione,
lo guardo quasi sentendomi in colpa perchè non so dargli vita.
So scrivere solo di quello che sento,
e, così, pur di buttar giù qualcosa scrivo di questa mancanza,
perchè non c'è mancanza più grande che rinunciare per scelta alla
nostra essenza, e , io lo faccio ogni giorno in cui non scrivo nulla.
E' come se dentro di me esistessero
tante persone, perennemente in lotta tra di loro, metterle a nudo in
tutte le loro forme è sempre stato e continuerà ad essere il
compito della mia vita,e so che la scrittura è il mio mezzo, l'unico
modo che ho perchè a nessuna manchi ossigeno, perchè non possiamo
pensare di essere uno soltanto e dobbiamo ascoltarle tutte le nostre
parti nascoste, è questo l'unico modo che abbiamo per avere una
vita piena.
E così scrivo, all'inizio, lo so,
sembrerà quasi un sussurro, poi piano piano alzerà la voce, si
imprimerà con forza il disegno della lettera sul foglio, chiederà
ascolto, visibilità, amore, e, solo così sgorgheranno le parole e
non ci sarà più modo di fermarle, gli argini saranno rotti, i
cancelli sradicati dal terreno.
L'immagine che voglio dare alla mia
vita è quella di un fiume, perchè i fiumi non conoscono tregua,
danno vita, a volte sono in piena, arrabbiati, maestosi, altre volte
scorrono piano, e a stento distingui il rumore delle acque che si
fanno spazio tra le sponde e, infine, trasportati dalla corrente
sfociano nel mare.
domenica 30 dicembre 2012
La guardiana di cappelli. Angela Barile.
Uno strano lavoro il mio, così strano che devi pensare per forza che ci sia un motivo se lo fai.
Appartengo a quella fila di persone che credono che esista una ragione per ogni evento della vita, anche se, non sempre, devo ammettere, è possibile capirla, a volte le cose sembra che accadano a casaccio o, comunque, seguendo percorsi imperscrutabili ai nostri occhi.
Ho passato quattro anni chiusa in un negozio a vendere cappelli, o, meglio, come ho sempre ironizzato io, a far loro la guardia. Un lavoro che non ho scelto e, che, devo ammettere, non ho amato. Mi ha rubato il tempo, il sonno,a volte, l'ottimismo. Mi sono sentita catapultata in una realtà che non mi apparteneva, a fare quello che mai avrei desiderato fare. Nessuno fa il lavoro che ama, è vero, ma io ho fatto di tutto per non farlo, lo capisco adesso, è chiaro, la mia è stata una scelta inconsapevole, ma sta di fatto che avrei potuto lavorare in qualsiasi altro negozio e, invece, mi sono ritrovata qui a passare ore interminabili da sola.
Il tempo me lo sono dovuto inventare, ho dovuto pensare a come riempirlo e l'ho fatto con quello cha amo di più: i libri e la scrittura.
In questi anni ho letto centinaia di romanzi saggi, raccolte di poesie, all'inizio, come sempre, solo per passare il tempo, poi pian piano mi sono accorta che nei libri cercavo altro, non la bella storia o il personaggio convincente, non il verso perfetto o la prosa scorrevole, ma scavavo, piuttosto, tra le pagine per trovare me, per trovare qualcosa che mi riguardasse e di cui non ne sospettassi l'esistenza.
Questo lavoro mi ha costretta, attraverso una delle cose che amo di più- i libri- a guardare dentro me stessa, a capire le parti di me più scomode, a rivedere certe mie posizioni, ho cominciato a scrivere, ho aperto questo blog e, molto spesso, ho scritto alla parte più sconosciuta di me più che agli altri.
Probabilmente se non avessi trovato un lavoro del genere non lo avrei mai fatto o forse il processo sarebbe stato molto più lungo. Tutto è perfetto così com'è, tutto è come deve essere, mi ripeto spesso, anche quando sembra che sia tremendamente difficile e doloroso, nessuno vuole punirti, ogni cosa accade perchè tu impari. Se davvero può un mantra infonderti serenità, queste parole allora sono il mio.
La mia avventura lavorativa è al termine, quello che dovevo imparare spero di averlo imparato,e, se non dovessi esserci riuscita, spero che mi sarà data ancora una possibilità.
Altre sfide mi aspettano adesso, forse dure,forse più di quello che immagino.
Per il nuovo anno mi auguro ancora di imparare come è stato per gli ultimi sei anni della mia vita, con me porto via tutto, ogni singolo istante di debolezza, di disperazione, di gioia, ogni persona che ho amato o detestato.
Porto via questa città che ora resta indissolubilmente legata a me, perchè non ti liberi mai della vita che hai vissuto.
Appartengo a quella fila di persone che credono che esista una ragione per ogni evento della vita, anche se, non sempre, devo ammettere, è possibile capirla, a volte le cose sembra che accadano a casaccio o, comunque, seguendo percorsi imperscrutabili ai nostri occhi.
Ho passato quattro anni chiusa in un negozio a vendere cappelli, o, meglio, come ho sempre ironizzato io, a far loro la guardia. Un lavoro che non ho scelto e, che, devo ammettere, non ho amato. Mi ha rubato il tempo, il sonno,a volte, l'ottimismo. Mi sono sentita catapultata in una realtà che non mi apparteneva, a fare quello che mai avrei desiderato fare. Nessuno fa il lavoro che ama, è vero, ma io ho fatto di tutto per non farlo, lo capisco adesso, è chiaro, la mia è stata una scelta inconsapevole, ma sta di fatto che avrei potuto lavorare in qualsiasi altro negozio e, invece, mi sono ritrovata qui a passare ore interminabili da sola.
Il tempo me lo sono dovuto inventare, ho dovuto pensare a come riempirlo e l'ho fatto con quello cha amo di più: i libri e la scrittura.
In questi anni ho letto centinaia di romanzi saggi, raccolte di poesie, all'inizio, come sempre, solo per passare il tempo, poi pian piano mi sono accorta che nei libri cercavo altro, non la bella storia o il personaggio convincente, non il verso perfetto o la prosa scorrevole, ma scavavo, piuttosto, tra le pagine per trovare me, per trovare qualcosa che mi riguardasse e di cui non ne sospettassi l'esistenza.
Questo lavoro mi ha costretta, attraverso una delle cose che amo di più- i libri- a guardare dentro me stessa, a capire le parti di me più scomode, a rivedere certe mie posizioni, ho cominciato a scrivere, ho aperto questo blog e, molto spesso, ho scritto alla parte più sconosciuta di me più che agli altri.
Probabilmente se non avessi trovato un lavoro del genere non lo avrei mai fatto o forse il processo sarebbe stato molto più lungo. Tutto è perfetto così com'è, tutto è come deve essere, mi ripeto spesso, anche quando sembra che sia tremendamente difficile e doloroso, nessuno vuole punirti, ogni cosa accade perchè tu impari. Se davvero può un mantra infonderti serenità, queste parole allora sono il mio.
La mia avventura lavorativa è al termine, quello che dovevo imparare spero di averlo imparato,e, se non dovessi esserci riuscita, spero che mi sarà data ancora una possibilità.
Altre sfide mi aspettano adesso, forse dure,forse più di quello che immagino.
Per il nuovo anno mi auguro ancora di imparare come è stato per gli ultimi sei anni della mia vita, con me porto via tutto, ogni singolo istante di debolezza, di disperazione, di gioia, ogni persona che ho amato o detestato.
Porto via questa città che ora resta indissolubilmente legata a me, perchè non ti liberi mai della vita che hai vissuto.
giovedì 6 dicembre 2012
Vedi alla voce:amore. David Grossman.

Ho comprato Vedi alla voce:amore distrattamente e con leggerezza, a richiamarmi era stato il nome dell'autore del quale avevo letto Che tu sia per me il coltello, che mi era piaciuto moltissimo.
Ma dopo poche pagine avevo già capito che di leggero questo romanzo non aveva proprio nulla, sia per l'argomento trattato ( si parla infatti dell'Olocausto ), sia per il tipo di prosa, difficile da capire. Non è certo un libro per tutti questo, ti appassiona pian piano, paragrafo dopo paragrafo, finchè ti ritrovi irrimediabilmente innamorata dei suoi personaggi, della poesia che emanano, dell'immortalità delle loro vite.
Il romanzo è diviso in quattro parti: nella prima Momik, figlio di sopravvissuti all'Olocausto, nato dopo la fine della seconda guerra mondiale, è sempre più incuriosito dagli accenni che gli adulti della sua famiglia fanno su quel paese lì e sulla belva nazista, ma nessuno di loro ne parla mai apertamente davanti al bambino, così ,agli occhi di Momik, la Germania, mai nominata, diventa un paese incantato, e , la belva nazista, assume i contorni di un animale feroce vero e proprio.
Ma è solo nella seconda parte che, Momik, finalmente adulto, potrà partire alla scoperta dei luoghi e dei fatti, che, da bambino, gli avevano destato tanta curiosità, e, lo fa seguendo le tracce di uno scrittore ebreo, Bruno Shultz, ucciso da un'ufficiale nazista: e così comincia il viaggio di Bruno in mare insieme ad un gruppo di storioni, la morte si riveste di un nuovo corpo, diventando una vera e propria rinascita.
Bellissimi sono i paragrafi in cui è l'oceano a parlare, perdutamente innamorato di quest'uomo che smette di vivere sulla terra, per vivere nelle sue acque.
Nella terza parte è raccontato un incontro a metà tra realtà e immaginazione: quello tra il nonno di Momik, Wasserman, e un ufficiale nazista, Niegel, in un campo di concentramento.
Niegel riconosce in Wasserman lo scrittore dei libri della sua infanzia e, ordina all'ebreo che, ogni sera, gli racconti una storia. Comincia così tra i due un rapporto paradossale che si inverte continuamente tra sudditanza e supremazia dell'uno nei confronti dell'altro. Wasserman vorrebbe morire, ma nonostante più volte i nazisti abbiano provato ad ucciderlo all'interno del campo, lui sembra completamente immunizzato ad ogni pallottola che gli attraversa il cranio. La sua immortalità dipende dal fatto che lui è uno scrittore e, uno scrittore è le sue storie e le storie di chi scrive non muoiono mai.
Wassemann conquista Niegel raccontando ogni sera, le avventure dei ragazzi di cuore, gli stessi protagonisti dei libri che scriveva in passato, ma stavolta cresciuti, invecchiati e, con l'aggiunta di un nuovo personaggio, Kasik, un bambino che cresce ed invecchia precocemente così da esaurire l'intero suo ciclo vitale in 24 ore.
Niegel, attraverso questa storia, prende man mano consapevolezza dei suoi demoni,e , attraverso la conoscenza con Wassermann si ferma a riflettere sulle sue azioni nel campo, prima viste solo da un punto di vista meccanico.
Ma è solo nella quarta parte che tutti i tasselli vanno al loro posto.
Qui Momik, ormai cresciuto e consapevole, compila una vera e propria enciclopedia, e, ogni voce, spiega, in qualche modo, tutto quello che abbiamo letto in precedenza, ma non con un ordine temporale, seguendo piuttosto una sequenza basata sulle emozioni.
Vedi alla voce: amore è un libro di una profondità inaudita, l'unico romanzo sull'olocausto che abbia mai letto, che accenna soltanto ai fatti tragici di quel periodo, come se Grossmann non riuscisse a prendere dalla realtà le parole per descrivere tanto orrore, preferisce esprimersi nel "non detto" attraverso la fantasia, mischiando personaggi reali ed altri immaginari, trasformando uomini in storioni, rendendo immortali gli scrittori e, infine, creando, un vero e proprio essere umano, limitato nel tempo nello spazio, a cui dedicare una vera e propria enciclopedia, che pian piano diventa l'enciclopedia di tutta l'umanità.
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