venerdì 30 maggio 2014

A te. Angela Barile.

Continuo a scrivere di te, anche adesso che non ci sei più, anche ora che le pagine della tua vita sono bianche già da un pò. Mi piacerebbe riempirle io al posto tuo, come se si potesse continuare a far vivere qualcuno, anche quando lui non vive più. Ti ho messo via quando eri vivo, e adesso che sei morto non riesco a farlo. Sei come resuscitato dentro me, il tuo cuore ha ripreso a battere, il tuo sangue a scorrere, i tuoi polmoni a respirare e non riesco a liberarmi del tuo ricordo, ogni parte del tuo corpo è vivida come lo era quando eri davanti a me, certe tue espressioni, certi tuoi sorrisi, tutto è ritornato dal momento esatto in cui volavi da quella finestra. E' vera questa cosa, che i morti non muoiono mai, se prima te li sentivi accanto, ora ti vivono dentro, non hanno più vita propria e respirano in quelli che sono rimasti, ognuno porta con se un pezzetto, una parte precisa da cui è impossibile liberarsi: io porto con me le tue mani, con le dita leggermente nodose, non troppo grandi, quelle tue unghia rosicchiate da tutti i tuoi pensieri, ne ricordo il calore, la stretta decisa, la sensazione di tormento che comunicavano, le vedo ancora, erano mani che si aggrappavano alla vita, e, anche quel giorno, di questo sono sicura, loro hanno lasciato solo per un attimo la presa, in quel lancio si sono aggrappate alla morte.

Io ti ho cercato tanto, mi capita ancora oggi di credere di incrociare il tuo sguardo, mi basta vedere un ragazzo con la barba rossiccia e un cappello con la visiera per credere di riconoscerti in lui, mi sorprende sempre constatare che non sei tu, è come se non riuscissi ad assimilare il concetto di morte.

Sarà che per me tu non sei morto mai, è come se ti fossi fermato a guardare il panorama da quella finestra e stessi fumando lì, affacciato, la tua sigaretta, con le campane di San Pietro che suonano lì vicino e i gabbiani che sciamano con lentezza sulla città, e, tu, lì, immobile.
 Per l'eternità.








                                     

lunedì 5 maggio 2014

Shantaram. Gregory David Roberts.



                                               


Devo ammettere che, all'inizio, la mole di questo libro (1200 pagine) mi ha spaventata, ha riposato sugli scaffali della mia libreria per tre anni, finchè ho deciso di cominciare la mia avventura con Shantaram. Ci sono dei libri che non riesci a smettere di leggere, libri a cui non smetti di pensare neanche quando sei al al lavoro, che non vorresti mai interrompere, e che non vedi l'ora di riprendere al ritorno a casa. Ecco, questo è Shantaram, un viaggio sorprendente in una terra meravigliosa, l'India, un percorso alla ricerca del bene, un inno all'amore e al perdono, un testo che fa riflettere e commuovere, ma in cui si ride anche.

L'autore, Gregory David Roberts, è un australiano, ex studente di filosofia, ex eroinomane, ex rapinatore, che finisce in carcere, condannato ad una pena di 19 anni, da lì evade con una rocambolesca fuga, e, con un passaporto falso, arriva a Bombay, dove trascorrerà la maggior parte dei suoi 10 anni di latitanza, fino a quando verrà nuovamente catturato. Di nuovo in carcere, l'uomo scriverà questo libro che si ispira, romanzandoli, ai 10 anni in cui è stato in fuga.

Protagonista indiscussa di questo libro è Bombay, città caotica e accogliente, fatta di odori penetranti e di caldo pungente che, all'inizio, quasi toglie il respiro, fatta di tanta gente, di personaggi indimenticabili, di cui il lettore si innamora immediatamente: al suo arrivo, Lindsay, il protagonista, con il suo nuovo nome fresco di passaporto contraffatto, incontra Prebaker, la guida indiana simpatica che conquista con il suo sorriso aperto e sincero,e, pagina dopo pagina,vediamo il libro riempirsi di personaggi straordinari: la losca e artistica combriccola del Leopold, locale caratteristico della zona turistica della città, le indimenticabili donne, personaggi dolci ed enigmatici, coraggiosi e fragili, a volte lievi parentesi in un mondo fatto di violenza, altre volte parti integranti della violenza stessa, vittime, ma spesso anche carnefici di grandi atrocità. E poi, i poveri, i poveri di Bombay, che vivono nella miseria più assoluta con la leggerezza e l'ottimismo tipico del popolo indiano, il libro è impregnato dei loro sorrisi, del loro lavoro incessante, del loro amore disinteressato.

E in mezzo a tutti questi personaggi ecco Shantaram, che significa "uomo di pace"( così il protagonista viene soprannominato durante una visita in un villaggio indiano), un criminale, uno dei maggiori ricercati al mondo, un uomo, che cerca di trovare in questa terra, una nuova identità, che non sia solo anagrafica, una vita che sia quanto meno accettabile, nonostante le privazioni a cui deve sottostare un evaso, e, che, alla fine si ritroverà medico, senza nessun titolo, in uno slum( nome dei quartieri più poveri di Bombay), a lavorare per la mafia indiana, a combattere, in Afghanistan, al fianco dei mujaheddin, per riscoprire, paradossalmente, un se stesso nuovo, capace di "affrontare il volto feroce e sorridente del mondo".

Alla fine, quando ormai avevo quasi finito questo romanzo, ho pensato che 1200 pagine erano maledettamente poche, la grande mole è ancora adagiata sul mio comodino, non riesco a separarmene!