martedì 23 settembre 2014

Una storia di amore e di tenebra. Amos Oz.



Avevo comprato questo romanzo un pò di anni fa e poi era finito abbandonato tra gli scaffali della mia libreria senza mai averlo letto, ogni volta che mi cimentavo nell'impresa non riuscivo ad andare oltre qualche pagina; come a volte mi accade, sapevo che il suo tempo per me un giorno sarebbe arrivato.
Quest'estate l'ho finalmente ritrovato con la netta sensazione che questo fosse per me e lui il momento giusto e, così è stato.

Una storia d'amore e di tenebra è una sorta di confessione, un'autobiografia del suo autore, Amos Oz, la storia della sua famiglia, della sua terra, del suo popolo. La sensazione che si ha, da queste pagine, è quella di una vera e propria catarsi, mi ha sorpreso, quasi alla fine del romanzo, leggere che l'autore, prima di questo libro, non aveva mai parlato e, comunque, mai in modo approfondito, di sua madre e di suo padre a nessuno, nemmeno a sua moglie e ai suoi figli. Il lettore stesso può notare con quale circospezione Oz si avvicini a determinati avvenimenti tragici della sua infanzia, solo a metà romanzo l'autore comincia ad accennare a quello che poi avrebbe sconvolto per sempre la sua vita e lo fa con timore, sembra quasi con una sorta di rispetto, non solo nei riguardi di chi ormai non c'è più, ma anche nei confronti del bambino che lui è stato.

E da questo bambino sono rimasta assolutamente affascinata, certo non si può dire che fosse poi così comune, dotato di una sensibilità e una maturità fuori dal consueto, naturale prodotto della famiglia dalla quale veniva e della terra e dell'epoca nella quale ha vissuto. Figlio di un uomo estremamente colto (suo padre conosceva ben 17 lingue!) e di una donna di animo sensibile e poetico, nipote di un importante professore universitario, autore di molti libri sulla lingua ebraica, Amos sembra soprattutto preoccupato di compiacere i suoi genitori e di trovare un posto consono all'interno della sua famiglia. Da queste pagine viene fuori anche la storia del suo paese, la nascita dello Stato d'Israele, la guerra che ne deriverà tra Ebrei e Palestinesi e già si può intuire quello che poi, più avanti, diventerà un convinto pacifismo, quella sua capacità di mettersi nei panni dell'altro, che non significa necessariamente dar ragione, ma piuttosto cercare di capire.
E così, se da una parte l'Amos bambino è condiscendente e preoccupato di piacere, dall'altro ben presto si arguisce una personalità assolutamente unica e ribelle che lo porterà ad allontanarsi dalla sua famiglia, arrivando persino a cambiare il cognome in Oz che in ebraico significa forza.

Questo libro, lo capiamo soprattutto alla fine, è quasi un modo per far pace con il suo passato, per ricongiungersi alla sua vita di un tempo, a quelli che l'hanno abitata, un modo per riconoscersi e accettare tutto quello che è stato, per far rivivere con le sue parole ciò che faceva parte di un tempo lontano e che ora non c'è più. Lui stesso scrive nelle prime pagine del libro " e in fondo, questo strano impulso che avevo da bambino-il desiderio cioè di offrire una nuova opportunità a ciò che non esisteva più nè mai più avrebbe avuto un'opportunità- è ancora fra le cose che mi muovono la mano, ogni volta che mi accingo a scrivere una storia."

E' per questo che Oz ha scritto la sua.

martedì 8 luglio 2014

Vita dopo vita. Kate Atkinson.


                                       



" E se avessi la possibilità di rivivere più volte la tua vita, finchè non venisse come deve? Non sarebbe splendido? "

                                                                                                   Edward Beresford


«Pochi istanti dopo essere venuta al mondo, il mio cuore ha smesso di battere. A quattro anni, sono annegata nell’oceano. A cinque anni, sono scivolata da un tetto coperto di ghiaccio. A otto anni, ho preso l’influenza spagnola. Quattro volte. A ventidue anni, mio marito mi ha spinto con violenza contro un tavolino, uccidendomi. A trent’anni, sono morta durante un bombardamento tedesco su Londra. E su di me cadevano le tenebre. Ma ho sempre avuto un’altra possibilità.»


Le intermittenze di una vita, ecco quello che racconta questo romanzo. Ursula nasce e muore più volte in queste pagine, è in queste vite che si dipana l'intera sua esistenza e quella di tutte le persone che le sono intorno, ogni evento può sempre accadere di nuovo, oppure no, è come se il tempo non fosse fatto dell'essenza cronologica che tutti gli riconosciamo, ma fosse circolare, come un serpente arrotolato su se stesso. C'è sempre un'altra possibilità per Ursula, e, ogni volta che lei si ritrova a vivere determinate condizioni, viene colta da un terrore primordiale, come se dell'altra vita avesse solo un sentore, che le fa sperimentare una sorta di preveggenza. In alcuni casi riesce a mutare il corso degli eventi cambiando non solo il suo destino ma, spesso, anche quello dell'intera umanità.

Ursula attraversa con le sue esistenze l'intero '900, il secolo delle guerre, dell'abominio nazista, ma anche del progresso, dell'emancipazione femminile, e, tutti questi elementi sono parte integrante della sua vita, tutto cambia nell'alternarsi delle sue esperienze, le uniche cose che restano come punti fermi indistruttibili sono il peso che questi eventi storici hanno avuto su di lei e, i membri della sua famiglia:ogni personaggio ha sempre, infatti, il medesimo ruolo e le stesse caratteristiche.

E' molto interessante e seducente la caratterizzazione dei protagonisti vista sulla scala di un tempo circolare, loro rimangono identici, ma esistenza dopo esistenza sempre più completi e vividi, come se, di volta in volta, venisse fuori qualcosa che prima ci era sfuggito.

Alla fine del libro si avrà la sensazione, che tutte queste vite, ripetute e sempre diverse, sono parte di un progetto unico, niente può essere tolto o aggiunto senza che il romanzo risulti manchevole, un aspetto che, personalmente, mi ha fatto molto riflettere sul significato lineare che si dà solitamente al tempo e allo spazio, che mi è sembrato "difettoso"  per la prima volta nella mia vita.

Forse, dopo tutto, le nostre esistenze non sono proprio come appaiono, forse è vero, tutti gli esseri umani hanno infinite possibilità perchè, come dice Sylvie, la madre di Ursula, alla fine del libro, "La perfezione si raggiunge con la pratica".
















mercoledì 4 giugno 2014

Le lunghe notti di Anna Alrutz. Ilva Fabiani.

                                         

                                                    


Questa è una storia di cui non riesci a liberarti, che ti catapulta in un passato lontano e, che, tu lettore, continui a sentirti addosso, come se quel tempo ti aleggiasse intorno, ti avvolgesse, vergognoso, pericoloso, sofferente.
Anna è qui, vento invisibile che soffia leggero o impetuoso, che si aggira nelle stanze della clinica dove ha lavorato,  che insegue le vite di chi è rimasto e cerca di afferrare le anime di chi è andato.

Anna è una braune Schwester, un'infermiera speciale del terzo Reich, lei contribuisce a rendere ancora più perfetta la razza ariana, si occupa della sterilizzazione di donne che, con i loro deficit fisici o psichici , potrebbero mettere al mondo figli non perfettamente sani.
Ma Anna è anche la voce narrante che viene fuori da queste pagine, che sibila tra gli atti violenti e inesplicabili di questo tempo. Ci racconta di una bambina sana e forte, di un'epoca lontana fatta di scuola e di vacanze, dell'adolescenza spensierata, dei primi contrasti in famiglia, del primo amore della sua vita, impossibile e platonico, di come e perchè lei, come milioni di tedeschi, abbia cominciato a vedere in Hitler il salvatore di se stessa e della Germania intera.

E tutto quello che succede sembra essere qui davanti a noi, il lettore lo vede, esattamente come la protagonista, ripetersi continuamente davanti ai suoi occhi. E' triste e struggente questo libro e non solo per l'argomento che tratta, ma anche perchè tutti noi ci sentiremo un pò Anna in queste pagine, capiremo che il male è una cosa che riguarda tutti, che non è così scontato, così definito, che nasce dalle nostre paure, dalle nostre debolezze,e, spesso non siamo capaci di individuarlo subito.

Anche lei lo capirà, poco prima di essere vento e il suo racconto sarà una catarsi necessaria e penosa, un luogo dove far rivivere tutto il dolore e la poesia, che pure si nasconde in questa assurda vita.

lunedì 2 giugno 2014

Lo straniero. Albert Camus.





                                                   


Nella mia vita è arrivato il momento giusto per ogni libro che avrei voluto leggere.
Ieri ho comprato e finito Lo straniero di Albert Camus. Ho sempre pensato che ci avrei messo un pò per leggerlo, e, invece, eccomi, l'ho divorato in poco più di due ore, soggiogata dalla sua scrittura essenziale, dalle frasi brevi e indissolubilmente distaccate l'una dall'altra, così nitide a descrivere il mondo quanto ermetiche a parlare di emozioni.

Il signor Meursault è lo straniero, l'uomo che vive alienato dalla propria vita e da quella degli altri.
Nelle prime pagine lui, assiste, quasi indifferente alla morte di sua madre, che viveva, ormai, da anni in un ospizio, sembra incapace di provare il benchè minimo dolore, accetta quest'evento, come qualcosa di ineluttabile, che, non cambia per niente la sua vita.
Tutto quello che gli succederà, da quel momento in poi, sembra quasi guidato da una mano invisibile, compreso l'omicidio che lo porterà in carcere ad una pesante condanna. Meursault ha sparato, ma non con l'intenzione di uccidere, era il sole di Algeri ad essere troppo caldo, a farlo agire senza che lui si rendesse ben conto di quello che faceva. E' un uomo che non mente a se stesso, che non intende giustificarsi, dice le cose così come stanno, senza mostrare nessuna emozione, non ama parlare di se, di quello che sente, è di poche parole, per lui esiste solo il mondo esterno, per lui la vita è rappresentata esclusivamente dai gesti che compie.
Quando Maria, la donna che ha conosciuto subito dopo la morte della madre, gli chiede se la ama, Meursault non sa rispondere, ma subito dopo è immediatamente colpito dal suo sguardo in cui si perde e si abbandona, ed è questa la cosa importante, molto più chiara di una sua qualsiasi risposta.

Durante il processo Meursault non appoggerà la linea difensiva del suo avvocato, non riuscirà a giustificare il suo gesto, perchè incapace di mostrarsi per quello che non è, accetterà la condanna, come ha sempre accettato ogni evento della sua vita, lasciandosi travolgere dalle conseguenze delle sue azioni, incapace di non essere straniero in mezzo agli uomini.

Solo nelle ultime pagine, il protagonista, si lascia andare ad un lungo monologo,e, lo fa urlando, per la prima volta, in tutto il romanzo, in queste ultime righe lui grida tutta la sua estraneità agli altri e al mondo, pronto ad affrontare il proprio destino che è poi il destino di tutti gli uomini.

Sembra quasi che Camus voglia dirci, in queste pagine, che, la felicità non è altro che questo:abbandonarsi.

venerdì 30 maggio 2014

A te. Angela Barile.

Continuo a scrivere di te, anche adesso che non ci sei più, anche ora che le pagine della tua vita sono bianche già da un pò. Mi piacerebbe riempirle io al posto tuo, come se si potesse continuare a far vivere qualcuno, anche quando lui non vive più. Ti ho messo via quando eri vivo, e adesso che sei morto non riesco a farlo. Sei come resuscitato dentro me, il tuo cuore ha ripreso a battere, il tuo sangue a scorrere, i tuoi polmoni a respirare e non riesco a liberarmi del tuo ricordo, ogni parte del tuo corpo è vivida come lo era quando eri davanti a me, certe tue espressioni, certi tuoi sorrisi, tutto è ritornato dal momento esatto in cui volavi da quella finestra. E' vera questa cosa, che i morti non muoiono mai, se prima te li sentivi accanto, ora ti vivono dentro, non hanno più vita propria e respirano in quelli che sono rimasti, ognuno porta con se un pezzetto, una parte precisa da cui è impossibile liberarsi: io porto con me le tue mani, con le dita leggermente nodose, non troppo grandi, quelle tue unghia rosicchiate da tutti i tuoi pensieri, ne ricordo il calore, la stretta decisa, la sensazione di tormento che comunicavano, le vedo ancora, erano mani che si aggrappavano alla vita, e, anche quel giorno, di questo sono sicura, loro hanno lasciato solo per un attimo la presa, in quel lancio si sono aggrappate alla morte.

Io ti ho cercato tanto, mi capita ancora oggi di credere di incrociare il tuo sguardo, mi basta vedere un ragazzo con la barba rossiccia e un cappello con la visiera per credere di riconoscerti in lui, mi sorprende sempre constatare che non sei tu, è come se non riuscissi ad assimilare il concetto di morte.

Sarà che per me tu non sei morto mai, è come se ti fossi fermato a guardare il panorama da quella finestra e stessi fumando lì, affacciato, la tua sigaretta, con le campane di San Pietro che suonano lì vicino e i gabbiani che sciamano con lentezza sulla città, e, tu, lì, immobile.
 Per l'eternità.








                                     

lunedì 5 maggio 2014

Shantaram. Gregory David Roberts.



                                               


Devo ammettere che, all'inizio, la mole di questo libro (1200 pagine) mi ha spaventata, ha riposato sugli scaffali della mia libreria per tre anni, finchè ho deciso di cominciare la mia avventura con Shantaram. Ci sono dei libri che non riesci a smettere di leggere, libri a cui non smetti di pensare neanche quando sei al al lavoro, che non vorresti mai interrompere, e che non vedi l'ora di riprendere al ritorno a casa. Ecco, questo è Shantaram, un viaggio sorprendente in una terra meravigliosa, l'India, un percorso alla ricerca del bene, un inno all'amore e al perdono, un testo che fa riflettere e commuovere, ma in cui si ride anche.

L'autore, Gregory David Roberts, è un australiano, ex studente di filosofia, ex eroinomane, ex rapinatore, che finisce in carcere, condannato ad una pena di 19 anni, da lì evade con una rocambolesca fuga, e, con un passaporto falso, arriva a Bombay, dove trascorrerà la maggior parte dei suoi 10 anni di latitanza, fino a quando verrà nuovamente catturato. Di nuovo in carcere, l'uomo scriverà questo libro che si ispira, romanzandoli, ai 10 anni in cui è stato in fuga.

Protagonista indiscussa di questo libro è Bombay, città caotica e accogliente, fatta di odori penetranti e di caldo pungente che, all'inizio, quasi toglie il respiro, fatta di tanta gente, di personaggi indimenticabili, di cui il lettore si innamora immediatamente: al suo arrivo, Lindsay, il protagonista, con il suo nuovo nome fresco di passaporto contraffatto, incontra Prebaker, la guida indiana simpatica che conquista con il suo sorriso aperto e sincero,e, pagina dopo pagina,vediamo il libro riempirsi di personaggi straordinari: la losca e artistica combriccola del Leopold, locale caratteristico della zona turistica della città, le indimenticabili donne, personaggi dolci ed enigmatici, coraggiosi e fragili, a volte lievi parentesi in un mondo fatto di violenza, altre volte parti integranti della violenza stessa, vittime, ma spesso anche carnefici di grandi atrocità. E poi, i poveri, i poveri di Bombay, che vivono nella miseria più assoluta con la leggerezza e l'ottimismo tipico del popolo indiano, il libro è impregnato dei loro sorrisi, del loro lavoro incessante, del loro amore disinteressato.

E in mezzo a tutti questi personaggi ecco Shantaram, che significa "uomo di pace"( così il protagonista viene soprannominato durante una visita in un villaggio indiano), un criminale, uno dei maggiori ricercati al mondo, un uomo, che cerca di trovare in questa terra, una nuova identità, che non sia solo anagrafica, una vita che sia quanto meno accettabile, nonostante le privazioni a cui deve sottostare un evaso, e, che, alla fine si ritroverà medico, senza nessun titolo, in uno slum( nome dei quartieri più poveri di Bombay), a lavorare per la mafia indiana, a combattere, in Afghanistan, al fianco dei mujaheddin, per riscoprire, paradossalmente, un se stesso nuovo, capace di "affrontare il volto feroce e sorridente del mondo".

Alla fine, quando ormai avevo quasi finito questo romanzo, ho pensato che 1200 pagine erano maledettamente poche, la grande mole è ancora adagiata sul mio comodino, non riesco a separarmene!

giovedì 27 marzo 2014

Il funerale. Angela Barile.

La prima immagine che conservava di lui era davanti all'entrata della chiesa il giorno del funerale. Fermo, immobile, vestito come ci si veste nei giorni di festa o di dolore. Gli occhi guardavano un punto fisso davanti a se.
Erano lì, eppure non c'erano.
 E le mani.
 Ricordava le mani.
Lui le aveva strette intorno alle sue, non per trattenere, ma solo per parlare, solo perché dalla bocca le parole non sapevano uscire.

Ricordava la stretta incerta, quasi imbarazzata, lo sguardo fisso dei suoi occhi su di lei, che non si fermava, ma passava attraverso, l'odore nauseante dei fiori, il rumore sommesso dei pianti in mezzo a quello strano silenzio, il sole caldo che oltrepassava le cose.

E poi c'era la bara, che a lei sembrava un contenitore vuoto, leggero, come se dentro non ci fosse nessuno, non quel corpo, non quella vita. Era lì, da poco riposta nel carro funebre, la gente la fissava sgomenta, incredula, quasi a volersi convincere che lui era davvero lì dentro, a cercare di immaginarselo, ma chissà forse non ci riuscivano neanche loro!
Le mani erano rimaste le une nelle altre per un tempo che le era sembrato infinito, un tempo che nessuna parola poteva riempire, poi lei si era allontanata, imbarazzata, sconfitta da questo insensato momento, dall'insensata morte di chi si toglie la vita. La bara si era allontanata. Vuota. Nessuno riusciva a immaginarla piena di lui.

Ci sono parole che non possono essere dette, quel funerale fu la commemorazione di qualcosa di indicibile, solo il prete osò parlare di dolore, solo lui mise insieme qualche frase dall'alto del pulpito, gli altri poterono solo esserci, salutare qualcosa che era già andata via, senza possibilità di saluto.

Chi muore resta, lei aveva sempre creduto, ma non voleva che queste parole fossero solo un messaggio vuoto, le piaceva pensare che avrebbe potuto far rivivere quella morte nella sua vita, mantenere con lui quel filo che prima di allora non erano stati in grado di tenere.

 Quella stretta di mano fu una promessa mancata, fu la prova, mesi dopo lo aveva capito, che da certe morti non può nascere niente, se non qualcosa di uguale, che i fili sono fatti per essere tenuti da almeno due persone,e, che, dall'altra parte, non c'era nessuno.

martedì 11 marzo 2014

Immagine di noi. Angela Barile



                                     

Non so se vi è mai capitato di tenere molto ad una persona, idealizzarla a tal punto da trasformarla dentro di voi perché quello di cui avete più bisogno è questa idealizzazione. Accorgersene richiede una grande consapevolezza di se stessi e dei propri bisogni; perché, spesso, è molto più facile attribuire il proprio dolore a qualcun altro piuttosto che a se stessi, perché quando la tua vita sembra non avere nè capo nè coda, la soluzione più facile è sperare che arrivi qualcosa dall'esterno ad aggiustare tutto e, lo desideri così ardentemente che basta riconoscere uno sguardo tra la folla e pensare: "Ecco, è lui".
Ho usato il termine "riconoscere" perché questa scelta non avviene per caso, insomma, non è che uno valga l'altro, mi piace ricordare una frase che una volta ho letto da qualche parte e che recitava più o meno così, non ci accade mai quello che desideriamo, ma solo quello di cui abbiamo bisogno e questo bisogno non è così scontato come possiamo immaginare, ed è uguale per tutti, non c'è distinzione:ciò che ci succede ha come fine ultimo, sempre, quello di aiutarci a diventare semplicemente noi stessi.

Così non è che quando qualcuno arriva nella tua vita debba necessariamente essere il tuo amore folle, o meglio, può anche succedere che lo sia, ma solo se il tuo percorso personale tu l'hai già concluso, se non c'è nient'altro che tu debba comprendere con le tue sole forze, in pratica, solo se l'altro è davvero, intimamente quello di cui hai bisogno.

Ci sono percorsi di vita che sembrano assolutamente incomprensibili; a volte girano in tondo, altre proseguono forse, ma molto più lentamente di quanto vorresti, e, hai bisogno di qualcuno, di qualcosa, che ti apra gli occhi su te stessa, e, di solito, le persone sbagliate non fanno altro che restituirti l'immagine distorta e sfuocata che hai di te. E tu colpevolizzi loro per tutto questo dolore, almeno fino a quando capisci che l'altro non è niente di più che uno specchio che ti mostra la parte oscura di te, ed è chiaro, che più tu sei completa, realizzata, intera, più la persona che hai davanti sarà quella giusta.

Non ci sono tempi validi per tutti, non ci sono scadenze, siamo sempre in tempo, sintonizzati sul ritmo che meglio si addice a noi, non ci sono ingiustizie che non apportino un qualsiasi genere di miglioramento. Dobbiamo solo imparare a lasciar andare nel momento in cui ci accorgiamo che una persona, un evento stride con qualcosa che è dentro di noi, rincorrere sempre e solo quello che è sulla nostra lunghezza d'onda.

La mia vita è piena di addii, alcuni imposti, altri voluti, piena di ultime scene cristallizzate in un tempo che è solo mio, immortalate nel mio personale "per sempre" e, niente potrà scalfirle, resteranno per l'eternità gioia e dolore assoluto, ma io vado oltre, oltre il buio della rassegnazione, lungo un percorso incerto e pieno di paure, ma estremamente luminoso, perchè l'unica speranza che devi avere lungo questa strada è che, attraversandola, un giorno finalmente troverai te stessa, l'unica cosa di cui hai davvero bisogno.

giovedì 6 marzo 2014

A un bivio.Angela Barile.





                                           

Vedo segni ovunque, segni che non posso cogliere.

Non riesco a rassegnarmi all'idea che la crisi, quella economica e politica che stiamo attraversando, ti tagli davvero le gambe. Sono convinta che la nostra vita personale, fortemente legata alle vicende collettive, non possa ridursi solo a questo, penso che almeno la metà della responsabilità sia nostra, e, nel caso specifico, sia mia. Mi aggiro intorno alla mia esistenza come un fantasma, mi affanno nel cercare uno sbocco lavorativo che vada contro tutto quello che ho sempre sognato, in nome di un realismo e un pragmatismo che sia al passo di questi tempi, e, ogni volta, mi vedo sbalzata fuori, come se qualcuno mi dicesse:" Non cercare scuse...non devi accontentarti!" Non so se sia la paura o la mancanza di fiducia a bloccarmi, a costringermi a cercare una via di fuga che ogni volta mi viene puntualmente preclusa. So che potrei agire, nonostante la crisi, nonostante l'epoca nella quale sto vivendo non sia quella della realizzazione, ma non lo faccio, resto lì, ferma, imbalsamata, aspettando qualcosa in cui non credo, e, che per questo non arriverà mai.

Le parole non scivolano come vorrei, dentro me ci sono muri invalicabili, che ho costruito chissà per quale ragione, probabilmente per proteggermi, ed è più forte il desiderio di sicurezza, più forte la paura, che la voglia di farcela. Non fai solo quello che non vuoi, tante cose ho voluto fortemente nella mia vita e le ho sempre ottenute, per esempio, sono brava ad andar via, a cambiare città, a ricominciare da zero, sembro una persona coraggiosa, intraprendente,e, per alcune cose lo sono. Ma poi mi blocco, non tanto con le parole, che riesco tranquillamente a lasciar fluire girando in tondo, ma con le storie che ho dentro, incapace di metterle sulla carta. Ho avuto tanto tempo a disposizione e ne ho ancora, eppure resto qui, a chiedermi perchè sto sprecando la mia vita nell'intento preciso di essere niente, nella paura insormontabile di diventare qualcuno, o, meglio, semplicemente, me stessa.

Ci sono vite con percorsi netti, più o meno facili, fatte di lavori e di amori più o meno soddisfacenti, di perdite e di unioni, vite che ti catapultano da qualche parte senza sapere come ci si è arrivati, destini ineluttabili, incomprensibili, a volte tragici, altri benevoli, e poi, ci sono vite come la mia, che non sanno che direzione prendere, che ti accerchiano, con sprazzi di luce che ogni tanto fanno capolino, attraverso loro ti sembra di intravedere qualcosa, ma non sai come si fa a saltare il cerchio, non hai il coraggio di perdere l'equilibrio nemmeno per un secondo. Ci sono vite che tu vedi senza scelta e che, invece, hanno milioni di possibilità, o, forse, solo una, e , quella scelta, sei tu!

martedì 4 febbraio 2014

Le lacrime di Nietzsche. Irvin. D. Yalom.

Siamo a Vienna nel 1882. Un rinomato medico dell'epoca, Josef Breuer, si ritrova ad acconsentire alla strana richiesta di Lou Salomè, donna molto affascinante e di  particolare carisma, lei sostiene che un suo carissimi amico, " un certo Friederick Nietzsche" necessiti di urgenti cure a causa di un malessere debilitante che lo colpisce sia nel corpo che nell'anima: forti emicranie, parziale cecità e manie suicide, secondo la donna, la filosofia tedesca è a repentaglio, perchè quest'uomo è, secondo lei, la grande promessa del futuro.
Sarà molto difficile convincere Nietzsche ad acconsentire alla cura, e il dottor Breuer alla fine ci riuscirà solo con una serie di articolati stratagemmi.
Ma Josef Breueer non è un medico come tutti gli altri, è un importante scienziato e, soprattutto il precursore e maestro di Sigmund Freud, a lui si deve il merito di avere applicato un'ancora embrionale metodo psicoanalitico a una sua paziente, Bertha Pappenheim, per curare la sua isteria. E' questa cura che Lou Salomè vuole che venga applicata al suo amico, convinta che i disturbi fisici di Nietzsche siano correlati anche alla sua sfera psicologica ed emotiva.

Il resto della trama è particolarmente complesso e, delinearla brevemente sarebbe un pò come sminuire questo romanzo, che io ho trovato enormemente profondo e interessante. L'autore, oltre ad essere un notevole scrittore, è anche un famoso psichiatra,e, in queste pagine, oltre ad un indiscusso talento, è, evidentemente presente una competenza precisa e dettagliata, non solo per quanto riguarda la vita dei suoi protagonisti, realmente esistiti e, del resto notissimi, ma anche per l'analisi attenta e pertinente dell'animo umano, prendendo come punto di partenza un uomo decisamente eccezionale come Nietzsche.

Interessante è il rapporto tra medico e paziente, che piano piano si inverte, ad un certo punto non si capisce bene chi dei due curi l'altro: attraverso questa terapia vengono fuori tutte le debolezze e i dubbi esistenziali di Breuer, ossessionato dalla sua paziente Bertha, con una crisi matrimoniale in atto e con molte incertezze sul suo ruolo di medico, di marito e di padre. Man mano che andiamo avanti nella lettura ci rendiamo conto che paziente e medico non sono poi così diversi,e, questa volta sarà la filosofia di Nietzsche a soccorrere Breuer, e le scoperte personali di uno, questo venirsi incontro in una relazione profonda e esaltante, rappresenteranno una chiave di svolta anche nella vita del filosofo.

Tante cose mi hanno colpita in questo libro, bellissimi sono i dialoghi serrati tra Breuer e Nietzsche, interessante questo mescolarsi continuo tra realtà e fantasia. L'autore, alla fine del romanzo, ci tiene a precisare, che i due non si sono mai incontrati, eppure ogni dettaglio è tanto pertinente da ritenere naturale immaginare che possa essere accaduto. 

Ci sono dei libri che ci scelgono in particolari momenti della nostra vita, arrivano a noi solo quando siamo in grado di poterli leggere, non avviene spesso, ma per fortuna, a volte, accade. A me è successo così con questo romanzo, l'avevo visto già altre volte in libreria, mi era capitato di accarezzarne la copertina, sfogliarne le pagine, sentirne l'odore, ma solo adesso ho avvertito la necessità di comprarlo e, fidatevi, come tante altre cose nella vita, non è stato un caso!


sabato 18 gennaio 2014

Ermione.

Eccola, ancora una volta, nuda davanti a se stessa.
L'immagine del suo corpo la riempiva, vestita si trovava sempre mille difetti, ma quando era spogliata di tutto, ogni imperfezione le sembrava perfetta: aveva la sensazione che tutto fosse predisposto in lei così come doveva essere, un' immagine generosa senza essere eccessiva, era così che si sentiva, dentro e fuori.
Non solo gli occhi sono lo specchio dell'anima, ma anche il corpo lo è: le cosce robuste e forti con le quali si era sempre rialzata, la vita che si assottigliava sopra i fianchi torniti, i seni, che da adolescente erano sempre stati il suo cruccio, e che ora le sembrava avessero semplicemente la giusta misura. Tutto in lei sembrava comunicare accoglienza senza essere invadente, il suo pregio maggiore, che a volte però le si ritorceva contro.Con un corpo così, che si sposava alla perfezione con ciò che era dentro, Ermione piaceva sempre a tutti, non era quasi mai successo che qualcuno la evitasse o la eliminasse dalla propria vita, lei era una che restava, una che doveva restare, una donna piacevole, interessante, gradevolmente imbranata, una di quelle persone che chiami se hai un problema, se vuoi essere ascoltato, se vuoi passare una serata a ridere e chiacchierare. A volte Ermione avrebbe voluto essere insopportabile, una di quelle donne con un brutto carattere, così avrebbe saputo che quando qualcuno l'avesse cercata non era certo per avere qualcosa in cambio, ma solo perche' la voglia era stata più forte di tutto il resto.
E invece si ritrovava quel corpo che parlava, che diceva agli altri quello che lei era, ed era così assordante quella voce, che, anche se avesse voluto essere diversa nessuno ci avrebbe creduto mai, anche lei, col tempo se ne era convinta, è un ruolo quel corpo, una specie di destino, e tutte le volte che lei cercava di scostarsene, aveva la sensazione di andare contro natura.
Siamo quello che siamo, non abbiamo altra scelta, l'unica possibilità che ci è concessa è quella di accettarci o continuare a combattere contro noi stesse. Ed Ermione non sapeva far altro che combattere e anche a smettere non sapeva proprio come fare, chissà se anche questa è natura, se anche questo è destino.

Si guardò negli occhi, attentamente, senza nessun rimprovero.
Intuì che c'erano aspetti di lei che non era ancora pronta a vedere, ma che un giorno sarebbero venuti fuori, che dopotutto non ci conosciamo mai abbastanza, che ci sono cose che accadono e che abbattono tutte le nostre certezze, e, il fatto che non siano ancora accadute non significa che non esistano.
 Si può perdere il respiro certe volte, si può perdere il controllo, si può perdere persino quello che credevamo di essere