giovedì 10 ottobre 2013

I miei mantra personali.



                                               
 

Che poi è vero, funziona quasi sempre così, cerchi di seguire una strada, la tua, e , solitamente lo fai andando contro tutto e tutti, spesso incontri qualcuno che ti asseconda, se sei fortunato addirittura qualcuno che ti aiuta, ma difficilmente incontrerai qualcuno che crede in te e, nemmeno te lo devi aspettare dopotutto, chi lo dice che la fiducia, la stima ti siano dovute? Per lo più la forza te la devi dare da sola, devi imparare a gestire i momenti no, non aspettare che passino, che quelli da soli non passano mai, se mai darti da fare, costruire te stessa in modo da renderli quasi innocui, in modo che non ti impediscano di andare avanti.
Smetti di lamentarti, che le lamentele ti peggiorano sempre, attaccati a qualcosa, che so, a qualche passione, ecco si, quello aiuta sempre, perchè qualche volta ci sarà bisogno di estraniarti, di non pensare e una chitarra, una penna, un libro avranno questo potere.
Prova a combattere, ma non come ad un incontro di boxe, ma come ad una partita a scacchi, pondera ogni mossa, mantieni il sangue freddo, prevedi i movimenti dell'avversario e previenili, non pensare alla sconfitta, ma mettila in conto e tieni sempre un piano alternativo, ma non prendere niente troppo sul serio, che  la vita è imprevedibile e in un attimo ti trovi in mutande o coperto d'oro.
Prova a superare i tuoi limiti, fai quello di cui hai più paura, goditi le sfide, prendi quello che di bello incontri sulla tua strada, impara dal dolore, ma poi lascialo andare.
Prova a vincere la tua emotività, a spiegarti senza urlare e dare di matto, fai in modo che la tua determinazione e la tua lotta non siano visti come capricci del momento, fà che gli altri ti prendano sul serio, e anche quando tutto ti sembra perduto, tu, mantieni la calma, siediti e rifletti, c'è sempre una strada alternativa che non avevi considerato, riposa un attimo e poi prendila.
Ricomincia.

giovedì 12 settembre 2013

I fiori blu. Raymond Queneau.


                                                       

La prima volta che un libro di Queneau mi è balzato davanti agli occhi è stato più o meno una ventina d'anni fa: mia sorella era stata costretta dal suo insegnante di letteratura francese a studiare Zazie dans le metro, devo ammettere che sia per il suo bassissimo livello di entusiasmo sia per il fatto che il testo fosse in francese (lingua a me sconosciuta!) non ebbi la benchè minima voglia di leggerlo, e, col tempo, sono rimasta piuttosto prevenuta verso l'opera di quest'autore, per anni è finito nel mio dimenticatoio.
Alcune settimane fa qualcuno mi ha parlato de I fiori blu con un certo entusiasmo, e, allora, mi sono detta "Perchè no?Proviamo!"

L'approccio iniziale con questo libro è stato di puro divertimento: il romanzo ha un linguaggio estremamente originale, basato su neologismi, giochi di parole, che lo rendono complicato all'inizio, ma che finiscono, irrimediabilmente, per incuriosirti; la traduzione in italiano non poteva essere affidata a un semplice traduttore, ci voleva una personalità che avesse un'estrema padronanza sia del francese che dell'italiano, meglio ancora, uno scrittore, come Italo Calvino.
Nella nota del traduttore che c'è alla fine del romanzo, Calvino, spiega, di come le sue iniziali resistenze a cimentarsi in questo lavoro, siano state vinte da una non specificata attrazione che queste pagine esercitavano su di lui: la traduzione non aveva potuto essere fedele all'originale, molte volte alcuni termini, alcune espressioni, erano stati riadattati per risultare piu' comprensibili al lettore italiano, mantenendo però sempre intatti lo stile e il significato originale.
Verrebbe da pensare, quindi, che protagonista assoluto di questo romanzo sia, appunto, il suo linguaggio, a discapito della trama, ma assolutamente non è così, anzi, entrambi si compenetrano,e, le esigenze dell'una corrispondono perfettamente a quelle dell'altro.

La storia raccontata, come ben si può immaginare, non è assolutamente consueta: parla infatti di due uomini, che, quando si addormentano, sognano l'uno dell'altro, il duca d'Augè che, con salti di 175 anni, vive sempre in epoche diverse, e Cidrolin che vive su una chiatta ,e, come unica occupazione ha di ridipingere la sua staccionata, che viene continuamente imbrattata da un anonimo accusatore.
Chi dei due è il sognatore e chi il sognato?

Ci sono numerose interpretazioni a proposito. Innanzitutto, la prima cosa che viene fuori a proposito di questi due personaggi è la loro contrapposizione: da una parte c'è il duca d'Augè, continuamente impegnato in nuove avventure, purchè non si tratti di guerre( fa di tutto pur di non partire per una crociata e cerca di svignarsela anche davanti alla rivoluzione francese); dall'altra c'è Cidrolin, una personalità molto più statica e tranquilla, che non fa altro che dormire e bere essenza di finocchio sulla sua chiatta che è ben ormeggiata, un pò come la sua vita.
E' per questo motivo che, a mio parere, l'interpretazione più affascinante è quella psicanalitica, che è accennata anche da Calvino nella sua nota del traduttore: l'attivo duca d'Augè rappresenta l'Es e Cidrolin l'ego " sonnacchioso e pieno di complessi di colpa", e , solo attraverso l'inconscio, che raggiunge la coscienza di se stesso con i sogni,  si potrà arrivare all'unico finale possibile, con l'incontro dei due personaggi, che finalmente compiono, insieme, un viaggio dai connotati quasi biblici.

Credo, infine, che si debba aggiungere qualche altra parola a proposito del titolo.
I fiori blu ritornano due volte soltanto nel romanzo a testimoniare tutto quello che decade e poi rinasce, in entrambi i casi infatti sono associati al fango che rappresenta, appunto, la decadenza.
Lo stesso Queneau spiegò a Calvino che l'espressione francese" i fiori blu" indica ironicamente " le persone romantiche, idealiste, nostalgiche d'una purezza perduta" .

I fiori blu è un romanzo in cui la storia viene fuori completamente frammentata costringendoci a guardarla con occhi nuovi e disincantati attraverso il sarcasmo dei due protagonisti che rendono ordinari eventi straordinari; esilarante, ad esempio, è il modo in cui viene trattata la guerra, dalle crociate alla rivoluzione francese, non tanto per la violenza dell'atto in se quanto per l'inutilità e la perdita di tempo che sembra rappresentare per il nostro duca, impegnato in ben altre interessanti avventure, una sorta di impedimento al vivere da cui si deve sempre fuggire, proprio come quei fiori blu che nell'immagine finale, ostinatamente, spuntano in mezzo al fango.

giovedì 5 settembre 2013

Resti di me. Angela Barile.






       


Eccomi qua, mentre provo a mettere insieme due parole sul mio tempo, sulla personalissima successione che dò agli eventi, sul modo in cui li seleziono e scelgo quali portare via con me e quali, invece, lasciare lungo la strada. Questi mesi sono stati veloci e carichi, non sempre il tempo è così, a volte pesa, sembra quasi che non passi, altre è leggero, hai come la sensazione di non essere riuscita a catturare tutto, di esserti persa qualcosa.
Eppure quello che è importante resta.

 Resta questa città che rincorro da sempre e che, ora è mia, mia perchè la posso guardare tutte le mattine al risveglio, mia, anche quando, mentre porto curricula in giro, mi fa l'occhiolino con un tramonto, lei è lì vera, e, il tempo non la cancella, non è una di quelle cose che può passare.

Resta tutta la fatica, tutti i mesi passati a chiedermi perchè...e restano le risposte che mi sono data che non valgono per tutti, ma che valgono per me.

Resta quello che ho visto dalla cima di una montagna a 1800 metri di altezza: la distesa sconfinata di questo mondo visto dall'alto e il cielo che quasi sembrava di starci dentro, ma forse ancora di più resta la salita, un passo dopo l'altro, con la paura, che ogni tanto faceva capolino, di non riuscire a farcela.

Resta qualcuno, resta anche se non c'è più, sei tu che decidi se farlo restare.
 Succede, a volte, che chi scompare resta di più.

Non resta, invece, la me di prima. A volte mi sembra vederla riaffiorare, ma è solo una specie di sogno, quando allungo le mani per sfiorarla lei scompare.

sabato 31 agosto 2013

I quaderni di Malte Laurids Brigge. Rainer Maria Rilke.



                                                   


Ero molto in dubbio se scrivere una recensione su questo libro, mi sembrava un compito piuttosto arduo per molte ragioni. Difficile è, per esempio, identificarlo con un genere letterario preciso: molti critici parlano di romanzo, l'unico di quest'autore, Rainer Maria Rilke, che è, invece, un poeta; eppure questa definizione è, secondo me, non corretta. Il Malte è un testo molto complesso, con una trama non bene identificata: sappiamo solo che il protagonista, Malte Laurids Brigge, danese, appartenente ad una nobile famiglia decaduta, arriva a Parigi e si stabilisce nel quartiere latino. Da questo punto in poi tutto è affidato a impressioni, ricordi, soprattutto del periodo dell'infanzia, legati, questi, in particolare, all'immagine materna, che, viene fuori in tutta la sua dolcezza e profondità.
La solitudine dell'essere umano, l'incapacità di poter essere se stesso al di fuori dei condizionamenti della società, sono elementi importantissimi in quest'opera, e,  rendono questo testo particolarmente significativo. Infatti, Il Malte è stato pubblicato nel 1910 e, porta con sè la crisi del romanzo ottocentesco, lo sgretolamento dell'individuo; l'assenza quasi totale della trama, è, secondo me, la prova di questa indefinitezza, la ricerca continua dell'essere prende il sopravvento su una realtà, che, a parte rari momenti di comunione totale, sembra completamente estranea, all'artista.

E' chiaro che Malte è un alter ego di Rilke, è della sua estraneità che il poeta parla, è la sua inquietudine che mette in scena, ma, alla fine, è la condizione dell'uomo, in senso oggettivo, che trapela da queste pagine.
Leggendo questo testo mi è tornato alla mente Il libro dell'inquietudine di Pessoa, anche se, il sogno nell'autore portoghese rappresenta ormai l'unica realtà possibile, mentre in Rilke gli eventi, i ricordi restano ancora per essere poi trasfigurati e rappresentati in una realtà che sia al di sopra degli eventi.

Con la parabola del figliol prodigo, nella parte finale del libro, Rilke rappresenta se stesso: prima l'allontanamento dal mondo, poi, un ritorno al passato, e, infine, un avvicinamento all'amore perfetto, cioè, Dio. E' questa realtà che vive al di sopra delle cose che l'autore cerca, qualcosa che sia libero dalle contingenze della realtà fisica, che ci permetta di accettare con serenità quella che è l'unica vera condizione dell'uomo: la solitudine.



giovedì 18 luglio 2013

Una donna.Sibilla Aleramo.






                                                   

E' difficile per me scrivere una recensione di questo romanzo, e, non solo perchè è un classico della letteratura su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, ma anche perchè nelle sue pagine mi sono spesso ritrovata per similitudine o per contrasto. Questo potrebbe sembrare quasi paradossale vista l'epoca in cui è stato scritto ( la data di pubblicazione risale al 1906 ) e visto l'argomento trattato, che, in apparenza, è assolutamente estraneo alla società e al luogo nel quale vivo. Eppure, secondo me, questo libro, che poi è una vera e propria autobiografia dell'autrice, non è semplicemente uno dei primi testi femministi usciti in Italia, ma il racconto di come una vita debba essere , innanzitutto, la risposta ad una necessità primordiale che, è, poi, quella di incarnare la nostra essenza più profonda a costo di qualsiasi sacrificio.

Sibilla Aleramo, racconta la sua vita:  da lontano rivede gli anni felici della sua infanzia milanese, il rapporto forte e profondo che ha con suo padre, quello più distaccato con la madre, donna malinconica e amante di poesia, e, ancora, quello con i suoi fratelli e sorelle più piccoli.
Quando Sibilla ha dodici anni, tutta la famiglia si trasferisce a Civitanova marche, dove il padre dovrà dirigere una fabbrica di bottiglie. Il passaggio da una realtà come Milano a quella di un piccolo paesino del centro Italia è, per la famiglia, abbastanza traumatico, ma Sibilla si adatterà velocemente iniziando a lavorare accanto al suo amato padre. Ad un certo punto, gli eventi precipitano, pian piano il rapporto tra i suoi genitori si deteriora e sua madre si chiude sempre di più in una cupa tristezza che la porterà poi ad un tentativo di suicidio che non avrà buon fine.Quest'evento avrà un forte ascendente su lei, ragazzina : innanzitutto ne risentirà il sentimento di assoluta venerazione nei confronti della figura paterna, che non rivedrà mai più allo stesso modo, e, più avanti, sarà il motore dal quale partiranno le sue scelte future, l'immagine di sua madre, trasportata  a letto in un lenzuolo bianco si imprimerà nella sua mente per ritornare con violenza inaudita nelle ultime pagine del romanzo.
 Sibilla subirà uno stupro da parte di un dipendente di suo padre, che, alla fine sposerà. Il matrimonio sembra quasi un modo per dare legittimità ad un atto così atroce, lei non confessa a nessuno la violenza, ma , così, crede, di farsi giustizia da sola, attraverso le nozze.
E' immediatamente chiaro che marito e moglie non sono assolutamente fatti per stare insieme: lui, rozzo e violento non può capire un animo sensibile e colto come quello della sua compagna. L'unica gioia di questa unione è il figlio, Walter, che sarà il solo faro di questi anni bui. Per tantissimo tempo Sibilla crederà di poter resistere, di poter annullarsi nel suo ruolo di madre, in questo amore sconfinato e inesprimibile che sente per la sua creatura. Ma è a quel punto che l'immagine triste e sconsolata della donna che l'ha messa al mondo farà capolino nella sua memoria, comincerà ad immaginare come sarebbe stato se sua madre, scegliendo la vita, avesse abbandonato lei e i suoi fratelli, e, la risposta che lei, con il suo bagaglio di esperienze, si darà, non potrà che essere quella definitiva e l'unica possibile.
Sono cariche di sofferenza le pagine in cui lei combatte, divisa, tra il suo ruolo di moglie e di madre e il suo ruolo di donna. Siamo nei primi anni del 900 e le due necessità, all'epoca, non erano assolutamente compatibili: Sibilla si trova davanti ad un bivio e, noi, la vediamo propendere ora per una strada ora per un' altra, fino a che la scelta diventerà quasi obbligata.
E' a suo figlio che Sibilla scrive. Questo suo primo romanzo è una sorta di confessione fatta a lui, affinchè un giorno possa leggerla, e, a tutti i figli del futuro, ad un mondo nuovo in cui la donna avrà giuridicamente gli stessi diritti di un uomo.

Il dolore  e la forza che convivono nella protagonista sono una delle immagini più belle che io abbia mai colto in un libro, la necessità primordiale che lei sempre ha sentito e contro la quale ha sempre combattuto, si annida fin dalle prime pagine per restituirci , alla fine, una donna sofferente ma vera, una donna che prende coscienza della sua essenza più profonda e la insegue a costo di terribili rinunce.

Il libro, in passato, non ha avuto la considerazione che avrebbe meritato e la scrittrice se ne doleva: in una lettera, scritta nel 1956 ad Arnoldo Mondadori, Sibilla scrive:"Io ho dinanzi a me il futuro, anche se voi non lo credete."
Mai nessuna frase fu più profetica.
Una donna resta ancora oggi a rappresentare tutte le donne del mondo, del passato e del futuro, quelle che, a costo di grandi sacrifici, ce l'hanno fatta, quelle che hanno rinunciato e quelle che sono cadute lungo la strada.

giovedì 4 luglio 2013

Una buona ragione per uccidersi. Philippe Besson.










Ho intravisto questo libro quasi nascosto sullo scaffale di una grande libreria, il titolo mi ha catturata per la sua immediatezza quasi cruda e indecente, l'ho preso senza pensarci troppo, era uno di quei libri che sembrano aspettarti, l'unica copia a fare capolino tra altre centinaia.
"Una buona ragione per uccidersi" è un romanzo sulla nostra società, sulla difficoltà che hanno gli individui di riconoscersi gli uni negli altri, di come il dolore di qualcuno passi quasi sempre completamente inosservato, coperto dal frastuono e dall'indifferenza che ci circonda.

Laura e Samuel sono i due protagonisti di questa storia che si svolge in un unico giorno a Los Angeles, il 4 novembre 2008, mentre tutta l'America si appresta ad eleggere il suo primo presidente di colore, eppure nessuno dei due sembra scalfito da questo evento che resta nella storia solo un mero sottofondo: per Laura questo è il giorno in cui si suiciderà, per Samuel il giorno in cui deve seppellire suo figlio. I due non si conoscono, fino a quando le loro vite si incontreranno.
Sono i dettagli ad essere raccontati in questo romanzo, il fatto che tutto avvenga in un solo giorno riesce a conferire ad ogni gesto un'importanza e una fatica che in un tempo più lungo non sarebbero venuti fuori così bene: l'importanza e la fatica di vivere.

Non puoi smetterlo di leggere questo libro, lo divori e ti divora: l'inconsolabile rassegnazione senza speranza di Laura, il dolore innaturale di Samuel diventano tuoi in queste pagine e ti sembra quasi di provarli sulla tua pelle o, comunque, in qualche modo, di condividerli, e, ad un certo punto, ti ritrovi a pensare che forse è vero, Laura non ha scelta e che il futuro che spetta a Samuel non ha quasi importanza, riecheggiano nella mia testa le sue parole oggi non ci sono più figli. E' il padre orfano. Il padre senza discendenza.
Eppure nei due protagonisti, così vicini alla morte in questo giorno, cogli il vero senso della vita: in ogni loro gesto, in ogni loro pensiero c'è l'essenziale; mentre il resto del mondo spera, festeggia, si entusiasma, la vita è tutta lì su quella panchina ai piedi dell'oceano, in quell'incontro che sarebbe potuto avvenire o che forse avviene.

lunedì 17 giugno 2013

Un fiume di parole.

Il foglio bianco mi osserva sconsolato, le parole non scivolano dalle dita, si vergognano a prender forma, sono trattenute da cancelli che neanche io conosco e, per quanto mi sforzi, l'unica cosa che riesco a vedere è questa pagina candida, la storia che deve sporcarla non viene fuori, che poi a pensarci bene è un po' la storia della mia vita, quella di non sporcare, intendo, di non disturbare. E chissà, forse, è questo che voglio evitare, imporre la mia presenza, le mie frasi, l'inchiostro nero che sbava sulla pagina bianca.

Mi scopro a fatica, sempre molto controllata, difficilmente mi lascio andare, nascondendomi dietro un modo di fare affettato e schivo, eppure questo spazio bianco continua a chiamarmi, mi sfida, e , a me manca la grinta, manca l'ambizione, lo guardo quasi sentendomi in colpa perchè non so dargli vita.
So scrivere solo di quello che sento, e, così, pur di buttar giù qualcosa scrivo di questa mancanza, perchè non c'è mancanza più grande che rinunciare per scelta alla nostra essenza, e , io lo faccio ogni giorno in cui non scrivo nulla.

E' come se dentro di me esistessero tante persone, perennemente in lotta tra di loro, metterle a nudo in tutte le loro forme è sempre stato e continuerà ad essere il compito della mia vita,e so che la scrittura è il mio mezzo, l'unico modo che ho perchè a nessuna manchi ossigeno, perchè non possiamo pensare di essere uno soltanto e dobbiamo ascoltarle tutte le nostre parti nascoste, è questo l'unico modo che abbiamo per avere una vita piena.

E così scrivo, all'inizio, lo so, sembrerà quasi un sussurro, poi piano piano alzerà la voce, si imprimerà con forza il disegno della lettera sul foglio, chiederà ascolto, visibilità, amore, e, solo così sgorgheranno le parole e non ci sarà più modo di fermarle, gli argini saranno rotti, i cancelli sradicati dal terreno.

L'immagine che voglio dare alla mia vita è quella di un fiume, perchè i fiumi non conoscono tregua, danno vita, a volte sono in piena, arrabbiati, maestosi, altre volte scorrono piano, e a stento distingui il rumore delle acque che si fanno spazio tra le sponde e, infine, trasportati dalla corrente sfociano nel mare.