mercoledì 4 giugno 2014

Le lunghe notti di Anna Alrutz. Ilva Fabiani.

                                         

                                                    


Questa è una storia di cui non riesci a liberarti, che ti catapulta in un passato lontano e, che, tu lettore, continui a sentirti addosso, come se quel tempo ti aleggiasse intorno, ti avvolgesse, vergognoso, pericoloso, sofferente.
Anna è qui, vento invisibile che soffia leggero o impetuoso, che si aggira nelle stanze della clinica dove ha lavorato,  che insegue le vite di chi è rimasto e cerca di afferrare le anime di chi è andato.

Anna è una braune Schwester, un'infermiera speciale del terzo Reich, lei contribuisce a rendere ancora più perfetta la razza ariana, si occupa della sterilizzazione di donne che, con i loro deficit fisici o psichici , potrebbero mettere al mondo figli non perfettamente sani.
Ma Anna è anche la voce narrante che viene fuori da queste pagine, che sibila tra gli atti violenti e inesplicabili di questo tempo. Ci racconta di una bambina sana e forte, di un'epoca lontana fatta di scuola e di vacanze, dell'adolescenza spensierata, dei primi contrasti in famiglia, del primo amore della sua vita, impossibile e platonico, di come e perchè lei, come milioni di tedeschi, abbia cominciato a vedere in Hitler il salvatore di se stessa e della Germania intera.

E tutto quello che succede sembra essere qui davanti a noi, il lettore lo vede, esattamente come la protagonista, ripetersi continuamente davanti ai suoi occhi. E' triste e struggente questo libro e non solo per l'argomento che tratta, ma anche perchè tutti noi ci sentiremo un pò Anna in queste pagine, capiremo che il male è una cosa che riguarda tutti, che non è così scontato, così definito, che nasce dalle nostre paure, dalle nostre debolezze,e, spesso non siamo capaci di individuarlo subito.

Anche lei lo capirà, poco prima di essere vento e il suo racconto sarà una catarsi necessaria e penosa, un luogo dove far rivivere tutto il dolore e la poesia, che pure si nasconde in questa assurda vita.

lunedì 2 giugno 2014

Lo straniero. Albert Camus.





                                                   


Nella mia vita è arrivato il momento giusto per ogni libro che avrei voluto leggere.
Ieri ho comprato e finito Lo straniero di Albert Camus. Ho sempre pensato che ci avrei messo un pò per leggerlo, e, invece, eccomi, l'ho divorato in poco più di due ore, soggiogata dalla sua scrittura essenziale, dalle frasi brevi e indissolubilmente distaccate l'una dall'altra, così nitide a descrivere il mondo quanto ermetiche a parlare di emozioni.

Il signor Meursault è lo straniero, l'uomo che vive alienato dalla propria vita e da quella degli altri.
Nelle prime pagine lui, assiste, quasi indifferente alla morte di sua madre, che viveva, ormai, da anni in un ospizio, sembra incapace di provare il benchè minimo dolore, accetta quest'evento, come qualcosa di ineluttabile, che, non cambia per niente la sua vita.
Tutto quello che gli succederà, da quel momento in poi, sembra quasi guidato da una mano invisibile, compreso l'omicidio che lo porterà in carcere ad una pesante condanna. Meursault ha sparato, ma non con l'intenzione di uccidere, era il sole di Algeri ad essere troppo caldo, a farlo agire senza che lui si rendesse ben conto di quello che faceva. E' un uomo che non mente a se stesso, che non intende giustificarsi, dice le cose così come stanno, senza mostrare nessuna emozione, non ama parlare di se, di quello che sente, è di poche parole, per lui esiste solo il mondo esterno, per lui la vita è rappresentata esclusivamente dai gesti che compie.
Quando Maria, la donna che ha conosciuto subito dopo la morte della madre, gli chiede se la ama, Meursault non sa rispondere, ma subito dopo è immediatamente colpito dal suo sguardo in cui si perde e si abbandona, ed è questa la cosa importante, molto più chiara di una sua qualsiasi risposta.

Durante il processo Meursault non appoggerà la linea difensiva del suo avvocato, non riuscirà a giustificare il suo gesto, perchè incapace di mostrarsi per quello che non è, accetterà la condanna, come ha sempre accettato ogni evento della sua vita, lasciandosi travolgere dalle conseguenze delle sue azioni, incapace di non essere straniero in mezzo agli uomini.

Solo nelle ultime pagine, il protagonista, si lascia andare ad un lungo monologo,e, lo fa urlando, per la prima volta, in tutto il romanzo, in queste ultime righe lui grida tutta la sua estraneità agli altri e al mondo, pronto ad affrontare il proprio destino che è poi il destino di tutti gli uomini.

Sembra quasi che Camus voglia dirci, in queste pagine, che, la felicità non è altro che questo:abbandonarsi.